Quando, nel 1906, il marchese Raffaele Cappelli, proprietario di numerosi poderi in Capitanata, decise di adibire alla coltivazione sperimentale uno di essi, il ministro dell’agricoltura gli fece il nome di Nazareno Strampelli. Quest’ultimo era agronomo e genetista, da anni impegnato nell’ibridazione delle specie di frumento sulla scia delle teorie di Mendel. Strampelli accettò senza esitazione la proposta del marchese.
Prima di trasferirsi nel cosiddetto Granaio d’Italia, lo scienziato aveva diretto con pochi fondi una cattedra ambulante a Rieti. Per i suoi esperimenti gli furono concessi un appezzamento di terra piuttosto distante e uno sgabello. Ciò non placò affatto il suo zelo e la sua dedizione.
L’obiettivo di Strampelli era semplice: aumentare il ricavato dei raccolti. Ciò era possibile dando origine a delle varietà di frumento resistenti alle intemperie e alle siccità specifiche dei diversi climi. Senza dubbio un’intenzione nobile, se si considera che a quel tempo non erano in pochi a soffrire i morsi della fame. I primi grani che lo scienziato diffuse incontrarono forti resistenze, un po’ per una consuetudine radicata e un po’ per l’opposizione dei produttori di sementi.
Il regime fascista mutò la situazione. Mussolini in persona fece visita a Strampelli per valutare la portata delle sue scoperte. All’epoca l’Italia importava buona parte del grano dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. Forte dell’incrollabile certezza dello scienziato, il Duce diede avvio allaBattaglia del grano, passo decisivo per il generale progetto autarchico.
In meno di sei anni la battaglia fu vinta: per quanto riguardava il grano, l’Italia poteva dirsi indipendente. L’impiego massiccio delle “sementi elette” fu uno dei fattori principali della vittoria. Il regime omaggiò abbondantemente Strampelli, nominandolo addirittura senatore. Ma l’agronomo, poco interessato alla politica, scrisse una lettera a Mussolini declinando l’offerta. La richiesta fu respinta e, malgrado la carica fosse stata ufficializzata, Strampelli continuò a dedicarsi assiduamente ai suoi studi. In poco tempo le varietà di grano da lui sviluppate si diffusero in tutto il mondo, giungendo persino a scatenare una battaglia del grano analoga, ma di segno opposto: quella della Cina maoista.
Strampelli non brevettò mai i frutti del suo studio, operazione che lo avrebbe reso ricchissimo, e rifiutò i privilegi derivati dagli alti meriti conferiti dallo Stato. Benché fosse consapevole del valore della sua opera, non si dilungò nemmeno in pubblicazioni prolisse e autocelebrative. A tal proposito affermava:
L’uomo che allarga ogni giorno il suo dominio su tutto ciò che lo circonda non è padrone del tempo, il grande galantuomo che tutto mette a posto. E il tempo a me è mancato di fare tante cose che pure avrei voluto veder compiute. Le mie pubblicazioni, quelle a cui tengo veramente, sono i miei grani. Non conta se essi non portano il mio nome; ma ad essi è e resta affidata la modesta opera mia.
Suo malgrado, è lecito considerare Strampelli un pioniere della Rivoluzione verde: quella rivoluzione che in pochi decenni ha portato alla perdita di biodiversità, ad un maggiore inquinamento e persino all’uso di OGM. Anche il suo nobile scopo è stato messo da parte: oggi le multinazionali detengono i brevetti delle nuove specie rendendole spesso sterili per costringere gli agricoltori al rifornimento continuo e alla dipendenza. Certamente lo scienziato si sarebbe opposto con fermezza.
In nome della produttività le sementi di Strampelli sono state a loro volta sostituite. Egli ne sviluppò più di sessanta, dando ad ogni varietà un nome diverso: Carlotta, in onore della moglie che fu anche sua fedele assistente, Gregorio Mendel, Dante e ancora Stamura, Apulia, Alalà…
L’agronomo non dimenticò nemmeno il marchese, diventato nel frattempo anch’egli senatore, che anni prima gli aveva affidato un campo. Nacque così il grano “Senatore Cappelli” che divenne allora uno dei più diffusi, ma al giorno d’oggi, coltivato ormai in poche regioni d’Italia, si può ritenere una specie rara e pregiata.